Immigrazione e altri argomenti: come parlarne con i bambini?
Come avevo anticipato nell’articolo di settimana scorsa sul perché parlare di immigrazione con i bambini, oggi voglio offrirti qualche spunto di riflessione sul come parlarne.
La parola che più mi risuona dopo aver raccolto e ordinato le idee per questo articolo è ATTENZIONE.
Settimana scorsa avevo scritto che occorre avere delle accortezze quando si parla di argomenti delicati con i bambini.
In particolare, secondo me, occorre fare attenzione a questi aspetti:
– ai discorsi e alle domande dei bambini:
Avevo già scritto che i bambini vogliono sapere. Ne hanno bisogno. Quando fanno domande, la questione che pongono all’adulto è già rilevante per loro perché è uscita dall’anonimato del non-sapere e si è manifestata alla loro attenzione. Ascoltare i loro discorsi nei momenti meno strutturati (es. a scuola durante l’intervallo, se sei un’insegnante, o a casa durante i giochi) può aiutare noi adulti a capire in quale direzione vanno le loro conoscenze e può fornirci un orizzonte in cui muoverci. Per dare delle spiegazioni o puntualizzare delle informazioni.
Occorre rispondere alle loro domande, anche se talvolta sono difficili o scomode. Teniamo presente che quando si rivolgono a noi per cercare delle risposte, i bambini ci stanno offrendo tantissimo: ci stanno accordando fiducia. Non possiamo eludere le loro domande inventando fatti o dando spiegazioni fantasiose lontane dal vero. Se non sappiamo cosa rispondere, meglio ammetterlo e riservarci del tempo per cercare le informazioni o chiarirci le idee su cosa dire.
– al linguaggio che usiamo:
Occorre utilizzare un linguaggio il più possibile vicino alla realtà dei bambini e, nel contempo, adatto alla loro età. Se ci torna utile, possiamo usare semplici metafore. Oppure, per iniziare a parlare dell’argomento, una storia. Può capitare che noi adulti possiamo essere condizionati nell’usare le parole di propaganda che sentiamo in televisione. Essere consapevoli che questo possa accadere, ci aiuta a prestare ancora più attenzione a quello che diciamo.
– alla nostra gestualità:
Essere noi a parlare con i nostri figli o con i nostri alunni di certi argomenti ci permette di usare il linguaggio del corpo a nostro favore. Di fronte a un’esitazione, a un dubbio o a un’espressione perplessa o interrogativa, possiamo sempre “aggiustare il tiro” e rispondere in modo adeguato a quel bambino in quel momento. Abbiamo per esempio la possibilità di modulare il tono di voce, di addolcire un racconto con le espressioni del viso, di rassicurare il bambino con un sorriso magari. Possiamo esercitare l’arte della tenerezza anche nella narrazione.
– al nostro atteggiamento di fronte alla questione:
“I bambini ci osservano. Anche quando sono di spalle” diceva una frase che accompagnava uno spot pubblicitario quando ero bambina. Allora non avevo capito il senso metaforico della frase, che mi sembrava quanto meno paradossale. Oggi mi rendo conto che ha una sua naturale verità. È il nostro atteggiamento di adulti di fronte a una questione che determina quello che il bambino assumerà a propria volta. Dipende da come ci poniamo in relazione noi adulti. Se di fronte a una questione siamo spaventati o confusi o arrabbiati, diventeremo adulti che a loro volta spaventano, confondono o suscitano rabbia. E trasmetteremo al bambino lo stesso messaggio.
– a creare un equilibrio tra pensieri ed emozioni:
Come scrivevo settimana scorsa, durante la narrazione non dobbiamo aver paura di incontrare le emozioni negative, né le nostre né quelle dei nostri bambini. L’importante è collocarle, cioè riconoscerle e riconoscerne il peso. Senza farsene sopraffare. Accogliendole per poi superarle e ritrovare l’equilibrio. L’obiettivo è quello di far coesistere emozioni, pensieri e azioni in modo equilibrato e armonico. In questo modo, aiuteremo i bambini a non ragionare per frasi fatte o per “sentito dire” e, nel caso dell’immigrazione, a vedere nella questione non un problema, ma delle persone prima di tutto.
Concludendo, quelli che ho scritto qui sono solo modesti spunti di riflessione su cui si può e si deve ancora lavorare molto, nella consapevolezza che certi argomenti oggi chiamano noi adulti ad affrontare delle sfide educative importanti. I bambini non vanno lasciati soli di fronte a interrogativi a cui noi stessi, a volte, fatichiamo a dare risposte. È necessario esserci, come siamo. Consapevoli dei nostri limiti. Perfettibili. E avendo chiaro che i bambini imparano più dagli esempi che dalle parole. Come ci ricordano le parole di un’intervista a Daniel Pennac:
Diffido dei discorsi di principio, soprattutto in poche parole. Preferisco i comportamenti. Per prima cosa, quindi, non presenterei ai miei allievi l’immigrazione come “problema”. Cercherei di insegnar loro (come fanno d’altronde molti professori) a vivere insieme e a esserne felici. Farei in modo che loro stessi divengano, per il loro contesto familiare e sociale, esempio di curiosità e tolleranza. I giovani non hanno bisogno affatto di discorsi, ma di fervidi esempi.
E tu? Sei d’accordo con quello che dice Pennac? Se vuoi, scrivilo nei commenti. Grazie!